Il progetto fa riferimento ad una storia romanzata.
I
Anno 1028
Un uomo seminudo scivola lungo il torrente. Ha un coltello infilato in una cintura di salice. Al collo una corda regge una piccola croce: due pezzi di ramo incrociati. Una veste stracciata e fradicia di acqua gli copre appena il tronco. Si lascia trascinare dalla corrente. Quando sente voci umane o vede tracce di sentieri si nasconde nella boscaglia e aspetta la notte.
Magro, barba e capelli lunghi d’un biondo rossiccio, arruffati. Lo sporco copre ferite vecchie e nuove su una pelle bianca, così chiara rispetto alle pelli dei contadini cotte dal sole. Lo sguardo scintilla da due occhi azzurri.
Le more che sporgono sull’acqua limpida e fredda, troppo fredda per il suo corpo stremato, e qualche pesce così disattento da farsi prendere e mangiare crudo, sono il suo unico cibo.
Pietro da Monforte ora non è più il chierico colto, consigliere dei conti, beniamino della contessa Berta al cui figliolo faceva da precettore, ma un possibile cibo per lupi.
Ormai è così lontano che i soldati dell’arcivescovo non possono più raggiungerlo, ha da temere solo i lupi e le insidie della foresta straniera.
Ai polsi ha i segni delle corde con cui era legato assieme a tutti i suoi compaesani prigionieri: triste carovana di uomini, donne e bambini che avevano lasciato il paese distrutto e bruciato per essere trascinati verso Milano.
Eretici!
Ma quale eresia può scuotere Alrico vescovo di Asti e il potentissimo Ariberto, arcivescovo di Milano, al punto di accanirsi con i loro eserciti contro un piccolo borgo, uccidere quanti potevano, demolire il castello della buona contessa, loro che dicendo di onorare Dio gozzovigliano con le concubine e vendono cariche e sacramenti?
Che eresie possono avere dei villani che non sanno neanche leggere, lavorano dall’alba al tramonto e a sera cadono sfiniti nella loro capanna?
Pietro però lo sa.
Lui parla e scrive in latino, in volgare, in provenzale e parla anche la lingua tedesca, la lingua dell’imperatore e dei suoi sgherri.
E’ predicare la comunione dei beni il crimine grave di Monforte d’Alba, crimine che ha scomodato il potentissimo arcivescovo Ariberto d’Intimiano signore di Milano e quasi re di mezza Italia, che siede alla destra dell’imperatore da lui stesso incoronato a Milano.
Che ne sarà di loro quando il Vescovo, ora impegnato con l’imperatore, tornerà a Milano?
A piedi i prigionieri hanno passato Torino, poi Vercelli, poi Novara.
Una scarsa minestra alla sera servita da soldati sgarbati, tanta fame e stanchezza.
Ma nelle prigioni buie del castello di Novara Pietro ha avuto fortuna. Al bagliore delle torce aveva visto in un angolo un coltello, caduto dalla cinta della guardia. Si era messo a parlare con lui in tedesco. La guardia era rimasta sorpresa di sentir parlare la propria lingua e non aveva notato che il prigioniero, in apparenza inginocchiato per la spossatezza, s’era infilato qualcosa sotto la veste.
Il giorno successivo, in marcia verso Milano, poco fuori dalla porta orientale di Novara ecco un torrente. Le acque sono ingrossate da recenti temporali.
Un attimo. Taglia le corde col coltello e si butta nella corrente. I soldati, appesantiti dalle armature, non possono inseguirlo.
“Morirà affogato e ci sarà un eretico in meno da processare!”
“All’inferno! E’già una fatica trascinare questa carovana con vecchi e bambini che gemono. Meno male che ci sono le donne con cui sollazzarsi alla sera.”
“Uno in meno da portare a Milano!”
E’passato un mese.
Si è fatto un bastone di legno duro. Da un lato ha una punta affilata e dall’altro una biforcazione, pure affilata. Non lo lascia mai. Gli serve per infilzare qualche pesce e per difendersi dai grossi animali. Non ci sono solo lupi ma anche cinghiali, cervi, volpi… Alla sera si fa una tana di rami spezzati. Notti senza sonno: fame e pericoli. La luna è tornata piena. E’ passato un mese. Fra non molto finirà l’estate e occorrerà trovare una situazione definitiva.
In un’ansa del Terdoppio*, così si chiama il torrente che ora gira calmo e si impaluda, ha notato un piccolo rialzamento.
“Passerò l’inverno qui nella palude. Il futuro è nelle mani di Dio.”
*Il torrente Terdoppio quattro secoli dopo sarà incanalato su Vigevano per ordine dei duchi Sforza di Milano. Nella valle dove scorreva con meandri paludosi ora rimangono alcuni corsi d’acqua in gran parte canalizzati.
II
In testa alla lunga carovana dei prigionieri la contessa Berta viaggiava sul carro, isolata dai suoi villani che seguivano a piedi. Le spettava il trattamento dei nobili, che potevano sempre essere oggetto di scambio o di riscatto.
Ci volle un giorno, ormai era quasi a Milano, perché le arrivasse la notizia che Pietro il chierico, maestro di palazzo nonché educatore di suo figlio, era fuggito.
Era felice per la fuga, a parte la paura che non riuscisse a sopravvivere, ma le sarebbe mancato. Come avrebbe affrontato da sola l’interrogatorio col vescovo?
Lei era sola. Marito morto, un figlio ucciso, l’altro, il piccolo, nascosto chissà dove. Contava su Pietro.
Così ora si chiamava quel chierico alto, dagli occhi azzurri e dai modi gentili, che andava e veniva dal castello e dalla collegiata di Alba dove studiava. Ildebrand era stato il suo nome, quando scorrazzava assieme ai suoi pari fra la caccia nelle foreste e le battaglie continue fra castello e castello. Poi si era convertito alla misericordia di Dio e nel convento aveva studiato e studiato, pregato e pregato e imparato a lavorare. Lavorare: parola sconosciuta a chi nasceva nobile.
Se la sarebbe cavata, solo nella foresta, in un paese sconosciuto?
Lui, forse, avrebbe saputo trovare il modo di venire incontro ai vescovi, spiegando la dottrina della semplicità e purezza e citando gli opportuni passi della Bibbia, senza il fanatismo dell’altro predicatore: quel Gherardo che sostiene il digiuno fino alla morte, oltre al divieto di mangiar carne, alla castità, alla rinuncia e che ha maledetto il vescovo di Asti…
Ormai si vedevano in lontananza le mura di Milano; le sagome di tetti, chiese, campanili e le torri superavano il profilo basso delle case degli abitanti e dei pochi palazzi dei signori. Quante torri!
Entrarono in città da un ponte levatoio sul fossato che circondava le mura.
Berta non aveva mai visto un ponte levatoio fra i cento castelli che conosceva, tutti in cima ad un’altura con la gran torre all’interno della cinta muraria.
Le mura di Milano erano di mattoni e non di pietra come a Monforte. In alcuni tratti restavano residui di una palizzata di legno che sostituiva le parti di mura romane demolite per cavar mattoni e costruire chiese e palazzi.
Lei si ricordava ancora di quando suo padre aveva fatto sostituire le mura di legno di Monforte, costruite in fretta per resistere ai saccheggi degli Ungari e dei Saraceni, con mura di sasso. Quanto avevano lavorato i Monfortesi e quanto avevano speso suo padre ed il vescovo conte! Come formiche, gli uomini si aggiravano sulle rocce piantando i loro ferri nelle fessure e pestando con le mazze. Quanto rumore di martelli sulle pietre e sugli scalpelli, quanta fatica a trasportar su le pietre per fare la torre e la casa del conte e poi, poco alla volta, sostituire la palizzata con mura di sassi a calce. E l’andare e venire dalle rocce bianche dall’altra parte della valle, e rompere quei sassi bianchi che cuocendo facevano la calce… Quanti occhi rovinati dagli schizzi di calce fra i suoi sudditi…
Ora, mura e torre di Monforte erano cumuli di pietra e polvere franati su quel che rimaneva delle case incendiate.
Entrarono. Anche nella grande città c’erano vie strette, case in legno con tetti di paglia.
Quanta gente! Quanta sporcizia e puzza nel caldo soffocante dell’estate di pianura!
Galline e maiali, liberi per le strade, mangiavano lo sterco e i rifiuti che le massaie buttavano in strada dalle finestre. Sotto i portici lungo la strada lavoravano falegnami, fabbri, maniscalchi, cuoiai, calzolai, fabbricanti di candele… I sarti tagliavano e cucivano le tele che le donne avevano tessuto nei telai delle loro case. Voci, grida e rumori.
Tintori cuocevano i tessuti in calderoni di liquido colorato e i loro ragazzetti pestavano le pezze con piedi e gambe nude in pozze di acqua di vari colori. Dalle botteghe dei fornai usciva profumo di pane. Donne e ragazzi andavano e venivano dai pozzi con secchi di legno. Cordai torcevano lunghe corde di canapa che si allungavano nella via. Beccai squartavano le bestie in mezzo a nuvole di mosche. Osti magnificavano a gran voce il vino e la birra delle loro cantine. Dovunque si vedevano bambini seminudi e sporchi, che si indaffaravano in piccoli mestieri o si ingegnavano a giocare, e mendicanti agli angoli delle vie. Una vacca vecchia e magra veniva tirata da due forzuti e muggiva, non voleva andare a morire. Un gregge di capre camminava per le vie e il pastore mungeva una ciotola di latte per volta alle massaie sulle porte di casa. Un viavai di carretti con mattoni, calce, fieno, formaggi entrava in città e ne usciva con tessuti, oggetti in ferro, in legno, in ceramica. Cavalli, asini, uomini, maiali e galline aggiungevano le loro feci sulla strada, pestate poi dal passaggio. Qualche bambino le raccoglieva con una paletta di legno nel tentativo di vendere il povero bottino, in cambio di una piccola rapa, ai padroni degli orti in mezzo alla città.
A Berta apparvero i grandi palazzi e le chiese in mattoni e calce. Molti edifici erano in costruzione. Altri facevano da cava di materiale per i nuovi. Il circo e il vecchio teatro romano, con le sue gradinate, erano in piena demolizione.* Pietre e mattoni, in un grande turbinio di polvere, venivano ripulite dalla calce e riutilizzate per i nuovi palazzi.
Le colonne dei templi antichi erano smontate a pezzi, per le navate delle nuove chiese.
Milano stava primeggiando su tutte le città.
Ricchi, uomini e donne, passavano a cavallo o a piedi in abiti eleganti e colorati. Il colore dei vestiti degli altri era il marrone del mallo delle noci sul tessuto di lana o di canapa.
La loro carovana di uomini, vecchi e bambini scortati da soldati era uno spettacolo insolito anche per gli abitanti di città. I curiosi si avvicinavano. Qualcuno si azzardava a chiedere chi erano, perché erano condotti, che cosa avevano fatto…
“Non lo sappiamo. L’arcivescovo ci ha distrutto il paese e trascinati qui.”
“L’arcivescovo?” Silenzio! E si allontanavano subito.
Alla contessa, seduta sul carro trainato da un cavallo stanco e assetato e scortata dai soldati che sudavano nelle armature arroventate dal sole, nessuno rivolgeva domande. Il suo abito verde, la cuffia bianca seppur sgualcita dal lungo viaggio, il suo portamento altero, il suo profilo serio incutevano rispetto.
Arrivarono al palazzo del vescovo.
Il popolo di Monforte fu fatto attendere in una piazzetta.
Berta scese dal carro ed entrò.
*Ne restano ora a Milano pochi ruderi
III
​
​
Le donne stavano con gli occhi bassi.
Le giovani erano terrorizzate di restare incinte di quei soldatacci.
Anche gli uomini stavano con gli occhi bassi: i mariti, i padri, i fidanzati.
I Monfortesi se ne stavano fra loro in un piccolo quartiere di case basse verso la porta orientale. Strano, non erano imprigionati, ma solo marchiati con un segno sulla pelle, e potevano girare per Milano anche se non sapevano dove andare. Chi era stato artigiano aiutava nelle botteghe, le donne a filare o a tessere. Così arrivava qualcosa da mangiare in più.
​
Di Monfort, come chiamavano il loro paese, nessuno parlava.
I milanesi chiedevano perché fossero stati trascinati lì:
“Che cos’è mai la vostra eresia?”
Le spiegazioni erano semplici ma confuse.
Monfortesi: “Ci hanno insegnato a non mangiar carne”
Milanesi: “E chi mangia la carne fra la povera gente?”
Monfortesi: “Non crediamo nei sacramenti.”
Milanesi: “Anche noi non crediamo nei sacramenti se sono somministrati da preti indegni.”
Monfortesi: “Ci dicono che il digiuno purifica.”
Milanesi: “Per questo noi poveri siamo molto puri.”
Monfortesi: “Ci fosse qui il chierico Pietro vi spiegherebbe meglio.”
Milanesi: “ E dov’ è mai questo Pietro?”
Monfortesi: “E’ riuscito a fuggire.”
Milanesi: “ Sembrate gente come noi. Il vescovo vi perdonerà.”
IV
Anno 1045
La notizia della morte del potentissimo arcivescovo Ariberto fece il giro d’Italia.
Il popolo milanese cominciò a far sapere all’imperatore che nominasse un altro vescovo, amico del popolo e non solo dei grandi feudatari.
Gli artigiani creavano ricchezza. Dalle campagne, coltivate con i nuovi aratri di ferro che rivoltavano la terra e grazie alle nuove tecniche per aggiogare buoi e cavalli, arrivava più cibo. I mercanti portavano merci utili e preziose. Ora il popolo cominciava a dire la sua in città e a voler preti e vescovi degni, non ladri e simoniaci pieni di concubine. Anche il nuovo Papa da Roma voleva far pulizia e vedeva di buon occhio che il popolo lo aiutasse a sbarazzarsi dell’imperatore e dei nobili che spadroneggiavano, nominando i vescovi che piacevano a loro.
La notizia della morte di Ariberto arrivò anche a Gravellona Lomellina.
Gravellona Lomellina non era l’altra Gravellona a nord della contea fra i grandi laghi, all’incrocio delle vie che menavano oltralpe presso il fiume Toce. Quello era un borgo importante.
Gravellona Lomellina invece era un piccolo paese di contadini, fuori dalle grandi strade, senza mura, con un castelluccio di legno dove venivano a riscuotere le imposte i signorotti dei conti di Biandrate, la stessa famiglia del nuovo vescovo di Novara, Riprando. C’era anche una piccola pieve. Gravellona da sempre, dai tempi dei Celti e dei Romani, era all’asciutto sulla sponda del torrente Terdoppio che gironzolava con meandri paludosi a oriente del paese. A mezzogiorno il torrente scendeva verso il Po e si poteva arrivare a Pavia con piccole zattere, ma i Pavesi erano nemici.
I Gravellonesi coltivavano le terre alte e asciutte.
Al Terdoppio pochi ci andavano. Di traversarlo neanche parlarne; si sprofondava nella melma o si veniva trascinati dalla corrente nei periodi di pioggia e poi, nella grande boscaglia, c’erano lupi, cinghiali ed altre bestie troppo pericolose per dei contadini disarmati.
Anche i nobili, quando facevano le loro battute di caccia al cervo o al cinghiale, preferivano stare sulle terre asciutte dove i cavalli correvano senza sprofondare.
Un giorno però il giovanissimo Guido, inseguendo a cavallo i suoi cani che avevano fiutato qualcosa di strano al di là di un piccolo corso d’acqua, si allontanò dagli altri nobili cacciatori, traversò l’acqua al galoppo e si infilò nel fitto della boscaglia.
Guido cominciava allora ad essere ragazzo. La spada gli pendeva pesante. La faretra, troppo grande, appoggiava sulla schiena del cavallo, che mal governava perché a stento i piedi arrivavano alle staffe. Qualche pelo biondo spuntava sulle guance rosse e sudate per la galoppata.
I cani continuavano ad addentrarsi nella boscaglia.
Un altro specchio d’acqua.
I cani a nuoto.
Il cavallo dietro, al guado.
Poi il cavallo cominciò a sprofondare.
Guido era un ragazzino temerario. Amava i cavalli e le cacce più dei libri che suo padre lo obbligava a studiare. Suo padre Riprando era vescovo a Novara, succeduto a Gualberto: la diocesi era in mano alla famiglia come pure tutto il contado di Novara, fin su alle estreme cime delle Alpi dove si parlava ancora tedesco.
Ma lui, appena poteva, scappava con i cugini e si cimentava con le armi e con la caccia. Non era tipo da spaventarsi.
Un colpo di speroni. Il cavallo diede un sussulto e sprofondò di più. Poi cominciò a nitrire di un nitrito terribile che Guido non aveva mai sentito.
Cominciò a perdere sicurezza.
Scendere da cavallo e sprofondare lui stesso? Tornare indietro? Impossibile.
Silenzio.
Nel silenzio solo il nitrito terribile del cavallo.
Poi un rumore di frasche rotte alle spalle. Si girò.
Due lupi lo guardavano dalla sponda.
Incoccò una freccia. Un tiro.
Troppo lontano.
I lupi non si movevano.
Un’ altra freccia. Questa volta il lupo, colpito in un occhio, fece un balzo e scappò nella boscaglia con la freccia conficcata, seguito dall’altro.
Silenzio.
Sentiva il cuore battere come se facesse rumore.
Avesse avuto almeno il corno per chiamare la truppa dei cacciatori! Ma un corno da caccia non si dà a un ragazzo.
Lo cercavano?
In un primo tempo aveva sentito il corno dei cacciatori. Ora non più.
Il cavallo continuava a nitrire di quel nitrito terribile.
Impossibile non sentirlo.
Perché non venivano a cercarlo?
Gli venne in mente un discorso a palazzo, quando un altro Biandrate non era tornato dalla guerra contro il re di Borgogna: “Così non ci si dovrà uccidere tra fratelli per chi deve ereditare!”
Era solo un bastardo, lo sapeva, ma anche un bastardo, se figlio di un vescovo importante e nipote del potente zio Guido di Uberto, poteva fare invidia.
Sì, forse non sarebbero venuti a cercarlo.
Uno in meno per l’eredità.
E i suoi cani dov’erano finiti?
Silenzio.
Il cavallo sprofondava sempre più.
Nitriti.
Silenzio.
Le ore passavano.
Niente suoni di corno dei cacciatori.
Rumori di rami spezzati, di foglie mosse dal vento, venivano dal bosco intorno e risuonavano sull’acqua immobile.
Poi il cavallo morì. Il cuore non aveva retto.
Restava il corpo dell’animale galleggiante nell’acqua, diritto, ancorato al fondo con le quattro zampe sprofondate e sopra Guido a cavalcioni con le gambe in acqua.
Solo.
Buttarsi a nuoto?
Le armi e gli speroni l’avrebbero trascinato giù.
Lasciare le armi?
E come sarebbe sopravvissuto poi?
Ora aveva anche fame.
Il sole era girato. Veniva sera.
E dopo la sera la notte.
Sera.
Sua madre gli aveva insegnato a dire le preghiere alla sera.
Da quando si sentiva grande non pregava più. Le preghiere sono per le donne e per i preti. Quelli ce l’hanno per obbligo.
Ma adesso gli venne spontaneo di dire un’orazione, un’orazione di protezione contro gli spiriti del male che l’avevano portato in questa situazione.
“Repello te spiritus nequam, tibi denuntio per Deum verum…
…
La preghiera era lunga. Sua madre la recitava ogni sera.
…
…Angeli tui sancti habitent in ea, qui nos in pace custodiant et benedictio Tua sit super nos semper.”
“Amen!” Una voce rispose dalla riva.
Ma Guido era in mezzo ad angeli e demoni e non l’udì.
Sera.
La preghiera della sera?
Cercò nella memoria le parole che tante volte aveva sentito risuonare, cantate dai chierici nella cattedrale.
Provò a cantarle con un filo di voce strozzata…
“Deus in adiutorium meum intende
Domine ad adiuvandum me festina
Memento Domine verbi tui
servo Tuo…”
…. non ricordava più
“… in quo mihi spem dedisti…” Una voce profonda aveva proseguito il canto sacro dalla riva.
Questa volta Guido si voltò, ancor più spaventato, sicuro davvero di essere in mezzo agli spiriti.
E uno spirito era sicuramente questo essere alto, con barba e capelli lunghi, vestito di pelli, che lo guardava e continuava il cantico in latino.
“Chi sei?”
“Un servo di Dio.”
Guido si mise a piangere. Davvero era in mezzo agli spiriti?
“Non temere ragazzo; ti salverò.”
Pietro era nascosto da oltre vent’anni ed era sempre sfuggito ad ogni incontro, dal quale non poteva venire che la sua fine.
Attratto dal nitrito terribile del cavallo atterrito (oh! l’aveva sentito quel nitrito in battaglia da giovane, prima di convertirsi) aveva seguito di nascosto la scena.
La preghiera di questo ragazzo, che sarebbe senz’altro morto, l’aveva deciso a farsi vedere.
“Aspetta che ti vengo a prendere”
“Deo gratias!”
Il vecchio sparì.
Scendeva la sera.
“Deo gratias!” Il poco che aveva imparato fra i chierici della cattedrale gli salvava la vita più della spada e dell’arco.
V
Ricomparve il vecchio dalla parte dell’acqua su una specie di zattera, fatta di fasci di canne legate con lacci di salice, che galleggiava. Si spingeva puntando un ramo nel profondo dell’acqua.
“Chi sei?”
“Avremo tempo di parlare, ragazzo”
Il ragazzo salì sulla zattera.
“Dammi la spada.”
Il ragazzo porse l’inutile spada.
Il vecchio la guardò un attimo, la impugnò con sicurezza; poi la immerse nella schiena del cavallo.
“Che fai?”
“Procuro il cibo da portare al nostro castello. Il resto lo lasciamo ai pesci, ai lupi e alle lontre”
Ripartirono in silenzio spingendo la zattera nella direzione da cui era arrivata.
Sbarcarono in un punto dove la terra era solida.
Il vecchio trascinò la zattera a terra e la nascose fra i cespugli.
Il castello del vecchio era una piccola capanna rettangolare su una zona rialzata. I muri erano di rami e fango. Sul tetto di canne di palude sporgeva una gran croce: due rami legati fra loro.
“Fai il segno della croce ed entra”
L’unica finestrella guardava ad oriente. Ora al tramonto era molto buio. Lasciarono aperta la porta per vedersi.
“Vedo che sei un ragazzo di buona famiglia. Ti sei perso a caccia. Eravate in molti. Ho sentito i corni e i cani. Pericolosa questa palude.”
“E tu chi sei?”
“Sono un servo di Dio, un eremita che prega per chi non ha tempo di pregare.”
“E come sei finito qui?”
Il vecchio non rispondeva.
“E tu chi sei, ragazzo?”
Anche il ragazzo non voleva rispondere. Se avesse saputo che era figlio del vescovo e nipote dell’altro Guido che comandava tutto il novarese, forse l’avrebbe trattenuto per un riscatto.
Il vecchio tagliò il pezzo di carne del cavallo con un coltello sottile. La lama si era assottigliata a furia di essere affilata sulla pietra.
“Che coltello sottile e vecchio! Non ne hai uno nuovo?”
“Ha molti anni, una buona lama tedesca. È l’unico ferro di questa palude.”
Tagliò pezzetti di carne e ne diede al ragazzo.
“Mangia, avrai fame.”
“Cruda e senza sale e spezie?”
“Non c’è sale in palude e non posso accendere il fuoco perché il fumo attirerebbe l’attenzione. Mangia. Sono venti anni che mangio crudo e, come vedi, sono vivo e ti ho salvato.”
Mangiarono. Il giovane mangiò in un attimo. Il vecchio, con pochi denti, biascicava a lungo.
“Ti farò avere tanti coltelli quanti ne vorrai. Potrai accendere il fuoco perché farò sapere di proteggerti. Mio padre è ricco e potente.”
Il ragazzo, perso il timore, cominciava a raccontare chi era, della sua famiglia, del paese vicino che si chiamava Gravellona Lomellina. A nord c’erano Tornaco e Terdobbiate, castelli amici. Insomma era nelle terre della sua famiglia.
Il vecchio ascoltava. Chiedeva i nomi dei vescovi. Sapeva tutti i nomi dei conti e dei vescovi di un tempo, anche dei nonni del ragazzo. Sapeva cose che neanche il ragazzo sapeva: che i conti di Pombia (ora si chiamavano Biandrate) venivano dalla Francia, e sembrava contento che ora fossero ancora più potenti.
Il ragazzo si stupiva che un eremita si curasse di queste cose.
“E dimmi, come sono i rapporti tra Novara e Milano? Milano comanda ancora?”
“A Milano c’è una grande confusione. Da quando l’arcivescovo Ariberto è morto…”
Il vecchio trasalì. Ma il ragazzo non se ne accorse.
“Non si sa chi comanda. I cittadini sono in subbuglio. Patari, straccioni li chiamano ma non sono solo poveracci, sono anche ricchi mercanti, artigiani. Il Papa non vuole più che sia l’imperatore a nominare i vescovi e si allea ora con i feudatari, ora con il popolo. Non vorrebbe neanche più che i preti e vescovi avessero moglie e figli perché gli eredi non si portino via le ricchezze della Chiesa. Il nuovo arcivescovo non è come Ariberto, non comanda più…”
“I tempi cambiano, vedo. Solo qui in palude nulla cambia… ma senti: tu sei giovane… ma già sai tante cose. Hai mai sentito parlare di certi eretici di Monforte che Ariberto aveva imprigionato?”
“E’ una storia vecchissima. In chiesa la raccontano spesso per incutere timore.”
“Che storia?”
“Strano che ti interessi.”
Il vecchio fece una strana smorfia.
“I Milanesi ne parlano ancora. Dev’essere stato terribile. Abitavano a Burg Monfort, vicino a porta Monforte.”
“Burg Monfort? Abitavano?”
“Erano eretici e l’arcivescovo voleva dare una prova di forza della Chiesa. Voleva che rinnegassero l’eresia e rientrassero fra i suoi sudditi. Ma quelli non si pentivano.”
“Allora?”
“Allora fece preparare un gran catasta di fascine e una gran croce per spaventarli.
“Convertitevi e sarete liberi! Se non vi pentirete morirete tra le fiamme.”
I Monfortesi non si spaventavano e non si pentivano.
Vollero parlare con la loro contessa.
Fu dato il permesso.
La contessa parlò con la sua gente. Non si sa cosa disse. Dicono che abbracciava tutti. Una nobile che abbraccia i villani! Mai visto!
Chi rinnegò la fede di Monforte e si riconvertì alla Chiesa fu liberato e abita libero a Milano.”
“E gli altri?”
“Gli altri si buttarono nelle fiamme. Fra di loro anche la contessa Berta.
Dove stavano quei poveracci il popolo milanese lo chiama ancora borgo Monforte. * Al vescovo sta bene. Così si ricordano! Eccome se si ricordano!”
Il vecchio, finora rimasto impassibile, a sentire che la contessa Berta era morta tra le fiamme si mise a piangere.
* Anche oggi, dopo mille anni che quelle povere case sono scomparse, quella strada a Milano si chiama corso Monforte.
VI
Il ragazzo Guido ritornò in famiglia.
Vescovo e conte in persona vollero conoscere questo strano eremita.
Il vescovo voleva trasferirlo nella cattedrale ma lui volle restare eremita e, cominciando a diventar vecchio, si accontentò di ricevere aiuti dagli abitanti del paese di Gravellona che contraccambiava officiando nella loro pieve.
Guido tornò spesso dal vecchio eremita.
Passava lunghe ore ad ascoltarlo, a farsi spiegare come era sopravvissuto in quella palude e anche ad ascoltare la lontana storia di Monforte d’Alba.
Fu lui che portò a Milano la notizia che Pietro era vivo.
VII
Anno 1054
Milano è in rivolta: gli straccioni, i patari come li chiamano vescovi e nobili, si appellano al Papa a Roma perché vogliono una Chiesa più sobria senza preti con le concubine. Il Papa li appoggia cercando alleati contro l’imperatore e i grandi feudatari; approva anche in parte la loro richieste di moralizzazione della Chiesa, che cerca di riformare in senso più pauperistico.
A “borgo Monforte” i monfortini sono in subbuglio.
Sanno che l’eremita Pietro è vivo.
Alcuni di loro sono andati a trovarlo e sono tornati rincuorati.
Qualcuno vorrebbe che si migrasse tutti e si andasse da lui.
“La contessa Berta, vi ricordate quando ci abbracciava?
“Pentitevi!” diceva “Che ne sapete voi di eresie? Vivete! E Monfort potrà ancora rivivere!”
Guido da Biandrate, l’amico di Pietro l’eremita, è passato tra loro e ha promesso una terra, fra quelle di famiglia, in cui riedificare il loro paese.
Non sarà un paese in cima ad un’altura come Monforte d’Alba, ma un’isola in mezzo alla palude dove Pietro è vissuto pregando per loro tutti questi anni.
Pietro li attende: sta diventando vecchio.
Il vescovo? Non è più suo padre ma un tale Oddone dalle idee confuse, che si è alleato con i nemici dei Patari ma poi fa quello che vuole il Papa.
Suo zio è ancora il padrone del novarese. Un villaggio e un castello in più gli aumenterebbe le rendite.
E’ il momento di andarsene da Milano!
Qui il vescovo sospetta di loro, teme che siano dei finti convertiti e i Patari non li aiuteranno, perché hanno bisogno della benevolenza del Papa .
Il vescovo di Novara è d’accordo. Gli ha già parlato.
Pietro ha pregato per loro tutti questi anni. Le privazioni hanno invecchiato il suo fisico eccezionale. Ora li aspetta!
….
“Abbiamo già patito troppo. Oramai siamo di Milano!”
…
“Che ci succederà ancora?”
VIII
Monfort de la palü, Monforte della palude sta per esser costruito.
I Monfortesi hanno preso poi una decisione: andranno da Pietro l’eremita e rifonderanno Monfort!
Tanti giovani sono nati a Milano e di Monforte d’Alba hanno sentito solo parlare dai vecchi, ma sono ugualmente decisi.
Partono da Milano; sono artigiani, operai, esperti contadini.
Seguono Guido e i suoi soldati che fanno strada.
L’incontro con Pietro è commovente.
Poi si mettono subito al lavoro.
Sull’altura in mezzo alle acque ci saranno presto case, piccole fattorie, botteghe artigiane, pozzo, forno e locanda per i pellegrini che verranno a trovare l’eremita.
Al posto della sua capanna si costruirà una piccola vera chiesa di ciottoli e mattoni.
Ci sarà una fornace per cuocerli con l’argilla del posto. Il pozzo darà acqua salubre. Le campagne saranno lavorate con i nuovi aratri a versoio.
La palude con i suoi pesci darà da vivere.
Attorno ci sarà un muraglione difensivo.
Guido da Biandrate ha promesso che intende fortificare tutto il villaggio al confine con i nemici pavesi e non solo la torre e il mastio, il dongione, come lo chiama ancora la sua famiglia che viene dalla Francia.
Guido con sua moglie Gilberta intende abitarci e costruire a sue spese mura e castello.
I nuovi abitanti si sentiranno naturalmente portati ad onorare Gilberta, che chiameranno subito Berta, come l’antica contessa di Monforte trascinata a Milano nel rogo.
Il nuovo vescovo Oddone acconsente ad istituire un piccolo mercato in cui verranno venduti pesci di lago e di palude di cui la zona è ricca. S’intende che questo mercato dovrà alla Curia metà dei proventi economici.
Era il 3 marzo dell’anno 1058, i lavori erano iniziati da un paio d’anni. Un venerdì di quaresima, circa all’ora sesta, in una giornata fredda e soleggiata, dopo un lungo periodo invernale di siccità, una scintilla di un fabbro ferraio appiccò il fuoco ad un tetto di canne di palude. Inutili ogni tentativo di spegnerlo. Il grande mercato coperto e la vicina locanda bruciarono in pochi
attimi. La notizia arrivò subito a Guido da Biandrate, che mandò un messo a consegnare l’ordine di non procedere più alla costruzione di tetti con materiali facilmente infiammabili e che ci si procurasse mattoni per i muri e soprattutto coppi per i tetti.
Più tardi Pietro morirà, senza veder finita la chiesa che sarà poi dedicata a san Pietro. Gli abitanti, venerando san Pietro, in cuor loro ricorderanno e venereranno anche il loro Pietro da Monforte.
I Biandrate Pombia, che avevano origini dalla Provenza, manterranno saltuari rapporti con l’oltralpe.
Dopo qualche anno si comincerà a sentir parlare di una nuova poesia, che gira per corti e castelli, portata dalla Francia da certi trovatori…